Movimento e scrittura nell'area del pop

di Franco Bolelli

Scrivere di musica: una pratica paradossale. Perché se la musica è per sua natura un microcosmo prefiguratore nel quale è possibile leggere le tendenze della trasformazione sociale, l'editoria musicale è paesaggio sintomatico dei vuoti, degli impacci, delle abitudini letargiche, dei rigurgíti conservatori, delle riluttanze, delle rimozioni che sottendono il rapporto fra la sinistra (e/o il movimento) e le forme di linguaggio. Mi sembra infatti che proprio sull'orizzonte polimorfe del linguaggio, dell'espressione, della comunicazione, si stagli in tutta la sua rilevanza l'incapacità della cultura di sinistra (della sua mainstream, quantomeno) di superare il terreno degli antidoti e di proporre percorsi e forme autonome. Ed è proprio per la scarsa disinvoltura con cui chi ha bisogno di trasformare il mondo si aggira in queste zone, che la cultura dominante ha agio di risolvere autoritariamente questa mancanza, spacciando se stessa per norma eterna e invalicabile e permeando del proprio ordine del discorso il senso comune.

Generalmente portata a rimuovere che senza trasformazione del linguaggio niente linguaggio della trasformazione, l'editoria musicale «di sinistra» sdrucciola così su una duplice írrisolutezza: quale tendenza nella musica? quale nella scrittura? Che le traiettorie ideali della sinistra non abbiano mai incrociato le radiazioni più vive della costellazione sonora, non è davvero un mistero. Ed è una subalternítà, quella che si è dunque instaurata rispetto ai codici dominanti, che si manifesta fin nel modo stesso di concepire la musica, nell'angolazione da cui viverla, nel suo rapporto con le forme dell'esistenza. E così come si inscrive la musica nella trappola della falsa antinomia fra divertimento e impegno, fra arte e spettacolo (categorie perfettamente speculari fra loro), allo stesso modo la scrittura viene costretta nel dualismo altrettanto artificioso fra cronaca e saggio, fra informazione e accademia, aree sovraffollate dei linguaggio d'ordine. Ad innervare di rari sussulti trasformativi questo black-out dell'inventiva, qualche scelta di tendenza dischiusa fra tante schizofrenie e a dispetto di troppe occlusioni. Storie accidentate, dunque, su percorsi peraltro costellati di possibilità latenti.

Sullo scenario delle riviste musicali, l'Assenza. E la circostanza non è nemmeno sorprendente, dal momento che tutto quanto il territorio dei giornali e dei periodici (fatta eccezione, naturalmente, per pochi appezzamenti marginali) sembra oggi coltivato secondo formule implacabilmente standard, dove tematiche e linguaggi sono improntati al monopolio di un unico codice. A presidiare il mercato musicale sonodunque la figura patinata & professionale della Rivista di hi-fi (la presenza di diverse testate non tragga in inganno: mutando fra loro le denominazioni il prodotto non cambia certo) e quella miseria & lustrini della Rivista di dischi (amplificatore di quell'industria discografica che è probabilmente la più miserabile fra le fabbriche di consenso). Unica sfumatura eccentrica rispetto a questa grigia uniformità di tinte, quella di Gong (non Muzak, invece: e non soltanto per lo sconcertante epilogo del suo gruppo dirigente, ma per l'irrilevanza stessa delle sue ipotesi musicali, poco o nulla in sintonia con le tendenze trasformative e incentrata piuttosto sui più madornali equivoci della nuova cultura subalterna, dal cantautoritarismo al jazz italiano, dal folk-rivisitato alla canzone politica). Dalle acque generalmente inquinate dell'editoria musicale, Gong scaturiva cinque anni fa come onda irrimediabilmente anomala, irripetibile combinazione di circostanze produttivamente ambigue. Sovvenzionato da un editore-ombra e insieme gestito autonomamente dal collettivo redazionale; «fiancheggiatore» delle cosiddette avanguardie eppure (o forse proprio per questo?) proiettato oltre una dimensione underground (quindícimila copie vendute in media, con punte dei doppio); prodotto inestricabile dalla sua forma-merce e simultaneamente malleabile ad ogni istanza trasformativa. Nei suoi tre schizofrenici anni d'esistenza, Gong dissemina barlumi di nuovo: mette a fuoco l'esistenza di musiche «altre» (dalla musica creativa nera-americana alla «new-wave», dagli improvvisatori europei all'area minimale), pratica forme di scrittura poco conformi con l'ortodossia della norma, smantella certe superstizioni riguardo al ruolo sociale della musica e della sua percezione. Comportamenti che adempiono ad una funzione progressiva, ma che comunque rimangono ancora al di sotto dell'esigenza di un mutamento radicale dello scenario musicale. Che allora Gong venga vissuto come un «troppo», un'esperienza isolata proprio perché eccessivamente Irriguardosa delle regole dell'editoria musicale, rivela limpidamente, più che la sua natura inventiva, l'arretratezza congenita che affiígge il campo musicale. Se dunque Gong muore, è soprattutto per non saper risolvere le sue contraddizioni interne. Muore prima ancora che per l'avvento di un borseggiatore a proprietario della testata - perché le spinte che ha messo in circolazione, le tensioni che ha innescato, premono per lacerare l'involucro stesso che le ha prodotte. E muore, non a caso, nell'autunno del '77, quando il movimento reale ha posto ad ogni livello la necessità non più eludibile di alzare il tiro della Pratica di produzione e di sperimentazione delle forme di linguaggio.

Il libro, allora. Perché è (potrebbe essere) lo spazio nel quale dispiegare con respiro più lungo le energie inventive e conoscitive. Ed è qui che l'editoria di sinistra (?, marginale?, democratica?, alternativa?, quella lì, insomma), rimasta latitante dal vischioso terreno delle riviste, ha scelto di muoversi con relativa determinazione (risultando in fin dei conti principale depositaria del settore, dal momento che le grandi concentrazioni editoriali si sono finora limitate ad apparizioni sporadiche quanto scialbe). Su questa rotta, aperta a suo tempo da Arcana, sono venuti inoltrandosi Savelli, Mazzotta, Gammalibri, Il Formichiere, e, più fugacemente, Multhipla, Edizioni delle Donne, Emme edizioni, l'Espresso, Squi/libri. Tanta disponibilità non si è comunque generalmente coniugata con l'irruzione di una scelta di tendenza nella produzione testuale. Il libro resta così troppo spesso un luogo di rappresentazione, di enunciazione fissa. Quasi sempre libro «da interpretare e da significare», ancora raramente libro «da sperimentare». Libro nel quale il linguaggio rimane il più delle volte ossequioso dell'ordine della comprensibilità appiattita alla forma subalterna del senso comune, e la scrittura è vissuta ancora come mezzo, non come pratica inventiva.

Di quale musica scrivere, è nodo altrettanto ingarbugliato. Una critica della duplice separazione cui essa è sottoposta - separazione dalla trasformazione dell'esistenza, separazione all'interno della musica stessa, smistata in generi fissi - e dunque, più in positivo, una messa a fuoco delle tendenze che spezzano l'ordine di questa separazione, stenta generalmente a prendere corpo. Se una tendenza è apparsa anzi dominante, è proprio quella, altrettanto artificiosa della segregazione della musica dentro codici normativi, ad incanalare la produzione testuale nell'alveo di poche formule codificate: (a) Testi delle canzoni. Dove la qualità del prodotto è così indissolubilmente legata alla qualità dei testi stessi, da dipendere direttamente dalla scelta dei loro autori. Così, accanto, a qualche raccolta densa di stimoli (Patti Smith, Lou Reed, gli stessi Pink Floyd), pullulano prodotti di grottesca banalità come quelli incentrati sull'orda dei cantautori. (b) Strumenti di base, manuali, do-it-yourself. Dove insieme a qualche nozione tecnica si spaccia un'idea della musica come fatto grammaticale e sintattico. Come se, invece di una forma viva, essa fosse una formula pietrificata. (c) Guide, prontuari, introduzioni a... Talvolta buone occasioni per profondere materiali critici e conoscitivi, più spesso miseri documentari informativi redatti in grigio stile giornalistico e fondati appunto sulla compartimentazione in generi. (d) Teorie della didattica. Sciorinate dal racket neo-istituzionale delle scuole di musica, improntate a una concezione accademica e cattedratica dove si comunica sempre qualcosa e mai con qualcuno, e dove tutto è sottoposto alla dittatura del significato.

Libri altri - tendenziali, prefiguratori, sperimentali, molteplici, aperti, trasformativi, conduttori di intensità - non brulicano davvero e circolano dunque nel ruolo ambiguo delle eccezioni. A muoversi lungo questi sentieri selvaggi sono senz'altro Daniel Charles, John Cage, jean-François Lyotard, Attali stesso (e penso di poter dire che Riccardo Bertoncelli e chi scrive si siano se non altro dislocati fuori da scelte e linguaggi d'ordine). Qui la pratica di produzione testuale si divincola dalla falsa antinomia fra il meccanismo pornografico della ripetizione di codici, codificati e quella designazione di modelli teorici che Lyotard chiama «godimento dell'immobilizzazione». Si pone dunque in sintonia con quella tensione metamorfica e anticipatrice che è da sempre organica al linguaggio musicale: «non il tempo di pensare, pensare in anticipo sul tempo» (John Cage). Qui, dunque, scrivere di musica può essere non una pratica parassitaria ma un atto a sua volta di ricerca, di liberazione dall'ordine del rispecchiamento e della significazione. Che questo percorso combaci poco con quello delle esigenze mercantili può essere: ma non lo assumerei come dato assoluto e universale, dal momento che una fruizione minoritaria ma non irrilevante, e aperta a queste tensioni inventive, esiste pure. Certe sorde resistenze dell'editoria «di sinistra» trovano dunque origine, a parte certi casi di smaccato cinismo, soprattutto nell'inibizione ancestrale a nuotare nella corrente della ricerca di linguaggio e a farla confluire in quella dell'espressione sonora.

Se un'urgenza dunque mi sembra emergere, non è certo quella di dar luogo ad altre formule, siano pure formule altre. Quella che si viene irremovibilmente stagliando è piuttosto la certezza che quella dell'impegno culturale e quella, dirimpettaia, della comprensibilità subalterna non sono che due soltanto fra le forme d'esistenza della produzione testuale, e per di più inscritte nella medesima' logica dell'affermazione di un'unità di senso. Altre possibilità, già abbozzate o ancora latenti, non mancano davvero. Tendere allora alla ricomposizione dell'universo sonoro; focalizzare le forme più inventive che percorrono la musica; sperimentare nuovi modi per farlo. Non mi sembra proprio che ùna produzione editoriale in qualche modo progressiva possa prescindere ancora da questi primi embrioni di tendenza.